MERIAM YAHYA IBRAHIM FINALMENTE LIBERA
Nell’intervista con Włodzimierz Rędzioch prof.ssa Valentina Colombo commenta la sconvolgente vicenda della sudanese condannata a morte per l’apostasia
WŁODZIMIERZ RĘDZIOCH: – A metà maggio il mondo ha scoperto il caso di una dottoressa sudanese, Meriam Yahya Ibrahim, che è stata condannata per l’apostasia alla pena capitale. Come si è arrivati a questa sconvolgente sentenza?
– Ma Meriam è musulmana o cristiana?
– La donna afferma di essere cristiana, mentre il tribunale la considera una musulmana e la condanna in quanto tale. Quando aveva sei anni Meriam e la madre sono state abbandonate dal padre musulmano. La mamma ha quindi cresciuto la figlia alla propria fede. E ha ragione Meriam quando afferma che è cristiana poiché non ha conosciuto altra religione nella sua vita.
– Cosa possiamo fare quando succedono i fatti come quello di Meriam?
– Riportare i fatti, parlare del suo caso e sensibilizzare le istituzioni internazionali quali le Nazioni Unite, nella triste consapevolezza che i paesi che afferiscono all’Organizzazione per la Cooperazione Islamica non riconoscono la Dichiarazione Universale dei Diritti dell’Uomo. E’ importante che vi siano attivisti musulmani che si oppongono alla sentenza del tribunale sudanese e che lottano per garantire ai loro correligionari il diritto di scegliere la propria religione.
– Potrebbe ricordarci i casi simili al caso di Meriam, che sono rimasti sconosciuti all’opinione pubblica internazionale?
– Quel che non viene sufficientemente divulgato è che la condanna per apostasia così come quella di blasfemia sono diventate armi nelle mani dei regimi totalitari per condannare gli oppositori. Basti pensare, al blogger trentenne saudita Raif Badawi che è stato condannato a dieci anni di reclusione, a mille frustate e una pena pecuniaria e sul quale pende ancora una eventuale condanna di apostasia per avere criticato non l’islam, ma la sua interpretazione wahhabita.
– Che cosa è esattamente la sharia, legge islamica, e qual è oggi il suo ruolo nei Paesi musulmani?
– La sharia, al pari della jurisprudentia romana, è “rerum divinarum atque humanarum notitia” (tradotto: “la conoscenza delle leggi supreme e di quelle umane”) e nella sua accezione più ampia copre tutti gli aspetti della vita religiosa, sociale, politica ed economica del musulmano. Infatti accanto alle norme concernenti l’osservanza delle pratiche rituali del credente, ingloba tutta la sfera del diritto di famiglia, delle successioni e della proprietà.
– Perché la sharia prevede la pena di morte per l’abbandono dell’islam? Qual è la giustificazione di tale pena?
– L’intellettuale tunisino Mohammed Charfi nel suo saggio “Islam et liberté” (Casbah Editions, Algeri 2000) ricorda affrontando il tema dell’apostasia alcuni versetti coranici a favore della libertà di coscienza a partire da “Non vi sia costrizione nella fede” (II, 256). Il tutto a dimostrazione che “Dio non è fanatico, mentre gli ulema di ieri, così come gli ulema e gli integralisti di oggi lo sono”. Il Corano non prescrive affatto che l’apostasia debba essere sanzionata con la condanna a morte. I dotti islamici giustificano la condanna a morte per il reato di apostasia con il detto del Profeta Maometto: “Colui che cambia religione, uccidetelo” che però è una tradizione poco attendibile, poiché appartiene alla categoria dei detti trasmessi da una sola persona. Anche Gamal al-Banna, fratello del fondatore dei Fratelli Musulmani, ha sentenziato: “Sono apostati. Ma sono liberi di esserlo. Dio dice: “Chi vuole creda, chi non vuole respinga la fede” (XVIII, 29)”. Così come ha rilevato che “il Corano non pone alcun divieto alla libertà di coscienza”. La religione non può essere imposta”.
– Subito dopo la seconda guerra mondiale fu proclamata dall’ONU la Dichiarazione Universale dei Diritti dell’Uomo. Ma non tutti sanno che tale Dichiarazione non è stata mai riconosciuta per la maggior parte dei Paesi musulmani che, non tanti anni fa, hanno preparato la propria: cosiddetta Dichiarazione del Cairo. Cosa prevede tale Dichiarazione?
– Per partire dall’esempio concreto di Meriam, per impedire la condanna a morte i diplomatici di vari paesi e Amnesty International si appellano alla Dichiarazione Universale dei Diritti dell’Uomo del 1948 ed in particolare al rispetto delle libertà religiosa, mentre i giudici sudanesi fanno riferimento alla Dichiarazione del Cairo dei Diritti dell’Uomo nell’islam del 1990, e sostengono che Meriam è musulmana ed è apostata.
– La Chiesa e i Pontefici sottolineano che la libertà religiosa, che prevede non soltanto la libertà di culto ma anche la libertà di cambiare religione, è la principale libertà dell’uomo. Come mai l’Occidente dei diritti umani sembra di non interessarsi della libertà religiosa nei Paesi musulmani e della persecuzione dei cristiani?
– Purtroppo l’Occidente molto spesso è ottenebrato dagli interessi economici, da un lato, e dalla paura di ripercussioni a livello interno, dall’altro. Quindi si invocano i diritti umani a corrente alternata a seconda dello Stato interessato. Basti pensare che nell’ottobre 2013 per le strade di Roma si potevano osservare i manifesti che celebravano gli 80 anni di relazioni diplomatiche tra Italia e Arabia Saudita e sui quali campeggiava la scritta “Arabia Saudita terra della storia e del dialogo”, laddove in Arabia Saudita un cristiano non può nemmeno indossare la croce al collo.
– Vorrei tornare al gravissimo problema dell’apostasia nell’islam: quale è la scala del fenomeno?
– Bisogna distinguere le accuse di apostasia dalle vere conversioni a un’altra religione o persino all’ateismo. Le accuse di apostasia, come ho già affermato, sono prevalentemente uno strumento politico di deterrenza: chiunque si opponga all’islam politico, rappresentato dalle varie sigle dell’estremismo islamico, viene accusato di apostasia. Così facendo l’oppositore politico diventa “nemico di Allah” e quindi apostata. Quanto alle vere conversioni sono molte di più di quanto non si possa immaginare, ma si tratta di conversioni che nella maggior parte dei casi “vivono nelle catacombe” e non si manifestano per paura di ripercussioni familiari e sociali. Negli ultimi anni si sono costituite in Europa associazioni di ex musulmani che stanno lottando con coraggio per fare sì che chi nasce musulmano possa essere libero di scegliere il proprio credo.
– La sharia che prevede la pena capitale per l’apostasia, ma anche legittima le disuguaglianze tra un uomo e una donna, tra un musulmano (vero credente) e un non-musulmano è percepita, dal punto di vista occidentale, come non rispettosa dei diritti dell’uomo. Come mai in alcuni Paesi democratici, come la Gran Bretagna, le autorità tollerano l’introduzione di certi elementi della sharia negli ambienti islamici?
– Questo è un errore che molto spesso viene commesso in Occidente. In nome della tolleranza e del rispetto dell’altro si accetta quel che è del tutto contrario ai diritti umani fondamentali. In Gran Bretagna, qualcosa sta cambiando. Lo scorso giugno un'inchiesta dell'Ufficio per gli standard educativi (Ofsted), che è entrato in ventuno istituti scolastici di Birmingham, ha rivelato che in almeno cinque di questi vigeva un'atmosfera di intimidazione tra gli alunni, fondata su quelle che sono state definite dal report britannico come “ideologie basate sull'estremismo islamico”.
Il 15 maggio 2014 Meriam è stata condannata a 100 frustate, per adulterio e alla pena di morte, per apostasia. Inizialmente, nell’agosto 2013, la dottoressa venne arrestata con l’accusa di adulterio, perché sposata con un cristiano con il quale ha avuto un figlio. In base all’articolo 146 del Codice penale sudanese è infatti sufficiente essere sposata con un non musulmano per essere accusata di adulterio. Durante il processo, nel febbraio 2014, la donna ha spiegato di essere cristiana e quindi è scattata l’accusa di apostasia, in base all’articolo 126. Tuttavia per comprendere a fondo l’assurdità di quanto sta accadendo alla giovane madre e sposa sudanese, per comprendere l’atrocità del brutale verdetto emesso nei confronti di Meriam, bisogna ripercorrerne rapidamente la vita.
Meriam è nata da un padre musulmano e madre cristiana ortodossa etiope. Il matrimonio dei suoi genitori è quindi islamicamente corretto poiché, nel diritto islamico, è consentito a un musulmano sposare una donna appartenente alle Genti del Libro, ovverosia una cristiana o una ebrea. Il diritto islamico invece non consente il viceversa, per cui Meriam è stata accusata di adulterio poiché ha sposato, un cristiano che, come previsto dalla sharia, non ha abbracciato l’islam prima di contrarre il matrimonio, quindi è “illegale”.
Ebbene il 23 giugno 2014 Meriam è stata scagionata e rimessa in libertà, ma il 24 giugno mentre si apprestava a lasciare il Sudan con il marito e i figli è stata nuovamente fermata per presunte irregolarità nel visto. Altre fonti riportano che sarebbe stata fermata perché avrebbe potuto turbare l’ordine pubblico con eventuali dichiarazioni. Il 25 giugno la famiglia è stata nuovamente rilasciata e la speranza è che le intimidazioni abbiano fine.
E’ un triste caso in cui la mobilitazione internazionale si scontra con un regime che interpreta i diritti umani solo dal punto di vista islamico, quindi relativistico.
Per quanto riguarda la condanna per blasfemia di cristiani, il caso di Asia Bibi in Pakistan è emblematico. La vicenda risale al giugno 2009 quando ad Asia, una contadina, viene chiesto di andare a prendere dell'acqua. A quel punto un gruppo di donne musulmane l'avrebbe respinta sostenendo che lei, in quanto cristiana, non avrebbe dovuto toccare il recipiente e si sono quindi rivolte alle autorità sostenendo che lei nella discussione avrebbe offeso Maometto. Asia Bibi, picchiata, chiusa in uno stanzino, stuprata, viene arrestata pochi giorni dopo nel villaggio di Ittanwalai. Nonostante abbia negato le accuse e abbia replicato di essere perseguitata e discriminata a causa del suo credo religioso, è stata arrestata e processata. Ancora oggi si attende una sentenza definitiva che tarda a venire perché da un lato i riflettori dell’opinione pubblica internazionale spingono per l’assoluzione mentre le istituzioni islamiche e soprattutto il radicalismo islamico diffuso nel paese chiedono la condanna.
In teoria il criterio in base al quale giudicare e controllare nel corso del tempo la correttezza del vissuto del credente e la sua conformità ai dettami coranici è rappresentato dalla sharia ovvero l’insieme delle prescrizioni che regolano la vita del musulmano come singolo credente e membro di una umma (la comunità dei credenti) ideale. In pratica questa interpretazione è oggi accettata solo dagli elementi più radicali e conservatori dell’islam.
In questo senso la sharia è concepita come un insieme di norme, esplicite o implicite, di origine divina e per questo inalterabili. Il diritto islamico non è quindi nato a partire da norme di diritto preesistenti, bensì le ha formulate a partire dalla parola divina nella profonda convinzione che quest’ultima offra sempre una risposta anche se talvolta risulta difficile comprenderla. Va ricordato però che solo il 3% dei versetti coranici contiene affermazioni a carattere legale, molte delle quali ispirate da esigenze occasionali, connesse al periodo di rivelazione. Questo 3% di versetti è racchiuso in un numero esiguo di sure, essenzialmente del periodo medinese (quali le sure II, III, IV, V, VI, VII, XI, XXIV), e concerne soprattutto il diritto di famiglia e quello ereditario.
La tradizione giuridica islamica ha ben presto individuato quali dovessero essere le fonti del diritto che potessero affiancare il Corano. Il primo gruppo di fonti viene definito “naql” ovvero “ciò che è stato trasmesso” e comprende la rivelazione coranica, in quanto espressione diretta e non mediata di Dio, che costituisce la fonte primaria, la Sunna, ovvero i detti e fatti del Profeta e la sua biografia. In questo caso si tratta di fonti che si possono definire statiche. Il secondo gruppo di fonti viene invece definito ‘aql ovvero “la ragione” e comprende l’ijma’ , il “consenso della comunità”, che avrebbe dovuto essere l’accordo di tutti credenti, tuttavia, per l’impossibilità comprensibile a coinvolgere tutti i credenti ovvero l’intangibile umma, ben presto divenne il “consenso dei dotti”, ai quali venne affidato il compito di prendere decisioni giuridiche. Le opinioni dei vari giuristi divergono per quanto concerne l’importanza dell’ijma’. E’ questo uno dei punti su cui gli sciiti si differenziano dai sunniti. Parte degli sciiti lo rifiuta in toto, mentre altri lo restringono ai discendenti diretti di Maometto, attraverso Ali. L’ijma’ è frutto dell’esigenza di assicurare alla nascente dottrina dell’islam una coerenza innanzi alla dispersione dei credenti e alla proliferazione inarrestabile dei detti e fatti del Profeta. L’altra fonte “razionale” è il qiyas, ovvero il “ragionamento analogico-deduttivo”, del singolo esperto. In questo caso più che di una fonte si tratta di un procedimento. Il ragionamento non è l’atto di una “ragione sovrana”, assoluta e innovatrice, bensì la benintenzionata ricerca della ragione su quei punti della parola divina meno chiari, meno espliciti dei testi.
Di fatto il reato di apostasia ha più un’origine storica che teologica. Non appena venne divulgata la notizia della morte di Maometto, nel 632, le tribù arabe si rivoltarono al primo califfo, Abu Bakr, mettendo a repentaglio l’unità del nascente stato musulmano. Abu Bakr dichiarò quindi guerra agli apostati con il consenso pressoché unanime della comunità, tanto che gli ulema codificarono questo atteggiamento e ne resero universale la condanna.
Stupiscono le dichiarazioni di Yusuf Qaradawi, il teologo di riferimento dei Fratelli musulmani, che ha dichiarato che l’islam non si sarebbe diffuso in assenza della condanna per apostasia. Quindi non solo l’apostasia viene condannata ferocemente, ma è diventata per l’estremismo islamico un modo per aumentare il numero dei musulmani al mondo.
Eppure nel Preambolo della Dichiarazione del Cairo dei Diritti dell’Uomo nell’islam del 1990, è scritto che si desidera “contribuire agli sforzi compiuti dall’umanità per garantire i diritti dell’uomo, proteggerlo dallo sfruttamento e dalle persecuzioni e affermare la sua libertà e il suo diritto a una vita dignitosa, conformemente alla Legge islamica”. All’articolo 11 si legge che “l’uomo è nato libero.”
E all’articolo 5 si afferma che “uomini e donne hanno il diritto di sposarsi, e nessuna restrizione basata sulla razza, il colore o la nazionalità potrà impedire loro di esercitare questo diritto”, sottacendo però le restrizioni appena citate che riguardano l’appartenenza religiosa dei futuri coniugi. E’ infatti all’articolo 11 che si trova l’affermazione chiave: “L’islam è la religione naturale dell’uomo (al-islam huwa din al-fitra). Non è lecito sottoporre quest’ultimo a una qualsivoglia forma di pressione o approfittare della sua eventuale povertà o ignoranza per convertirlo a un’altra religione o all’ateismo”.
L’articolo 11 si basa sul concetto espresso dal versetto coranico 30 della sura XXX “Drizza quindi il tuo volto verso alla vera Religione, in purità di fede, Natura prima in cui Dio ha naturato gli uomini” e dal detto di Maometto trasmesso da Abu Hurayra secondo cui “Ogni bambino nasce con la disposizione naturale all’islam (fitra), sono poi i suoi genitori che lo fanno ebreo, cristiano o zoroastriano”.
Il ministro dell'istruzione ha quindi dichiarato che il rapporto stilato dall'Ofsted ha svelato una “cultura della paura e dell'intimidazione” che obbligherà il governo a promuovere “valori britannici in tutte le ventimila scuole primarie e secondarie del territorio”, dove per valori britannici si intende la supremazia della legge civile e penale inglese, la tolleranza religiosa e l'opposizione alla segregazione di genere, compreso, forse, l'uso del burqa in classe.
Purtroppo si tratta di una decisione che arriva troppo tardi e che non potrà riparare i danni di decenni vissuti all’insegna del fallimentare e deleterio modello multiculturalista.