Per avere il futuro l’Unione Europea deve rispettare l’identità dei popoli

Riflessioni sull’Europa del card. Angelo Bagnasco, presidente del Consiglio delle Conferenze Episcopali d’Europa

Mi piace il gotico e per questo motivo amo la chiesa di Santa Maria sopra Minerva, l’unico esempio di questo stile a Roma. Costruita nel XIII secolo dai domenicani sulle rovine dell’antico tempio di Minerva conserva nel suo affascinante interno tantissime opere d’arte e monumenti sepolcrali: splendidi affreschi di Filippino Lippi e di Antoniazzo Romano, la statua di Cristo con la croce di Michelangelo, le reliquie di santa Caterina da Siena, compatrona d’Italia, poste sotto l’altare principale, due monumenti sepolcrali dei papi Medicei, Leone X e Clemente VII, la pietra tombale di quello straordinario frate-pittore che fu Beato Angelico. Tutto l’interno coperto dalla volta azzurra con le stelle d’oro. In questa chiesa si respira la storia della Chiesa e dell’Europa con la sua arte, che affascina tutto il mondo, con i suoi santi e papi. E proprio questa chiesa-simbolo della nostra identità europea e cristiana è stata scelta per la celebrazione del solenne vespro il 23 marzo in occasione del 60° anniversario della sottoscrizione del Trattato di Roma presieduto dal card. Angelo Bagnasco, presidente del Consiglio delle Conferenze Episcopali Europee. Per me è stata un’occasione per parlare con il Porporato italiano dell’Unione Europea in questo delicato momento della sua storia.
Il card. Angelo Bagnasco, arcivescovo di Genova, è presidente della Conferenza Episcopale Italiana (fino a maggio di quest’anno) e dall’ottobre 2016 presidente del Consiglio delle Conferenze Episcopali d’Europa (CCEE), allora è una persona più qualificata per parlare dell’Unione Europea in questi giorni di festeggiamenti. La Chiesa da sempre appoggia il processo d’unificazione del nostro continente e crede nel suo futuro a condizione che l’Unione Europea “rispetti le identità dei popoli e abbia un fondamento culturale e spirituale e non la base puramente individualista e materialista” – dice il card. Bagnasco.

Włodzimierz Rędzioch: - Lei, dall’ottobre del 2016 è presidente del CCEE dopo 10 anni di presidenza del card. Péter Erdő. Come mai ha voluto cominciare la sua missione incontrando il Patriarca di Mosca e di tutte le Russie, Kirill, e il Patriarca Ecumenico di Costantinopoli, Bartolomeo I?

Card. Angelo Bagnasco: - Il ruolo di Presidente del Consiglio delle Conferenze Episcopali d’Europa (CCEE) comporta anche questi incontri allo scopo di crescere nella reciproca conoscenza e nel cammino ecumenico. Il Patriarca Kirill di Mosca e il Patriarca Ecumenico Bartolomeo di Istanbul mi hanno molto colpito: sono persone di grande carisma, guidate dalla fede in Cristo e dall’amore alla Chiesa. Sono coscienti delle sfide del secolarismo dilagante, che sia la Chiesa Ortodossa che quella Cattolica devono affrontare. Anche per questo siamo convinti di accelerare ogni possibile collaborazione al fine di annunciare il Signore Gesù nel Continente. Tutti vediamo che, venendo meno la fede cristiana, è avvilita anche la dignità umana.

- Lei, Eminenza, ha visitato anche le istituzioni europee a Bruxelles. Quali sono state le sue impressioni?

- Ovviamente il Consiglio delle Conferenze Episcopali d’Europa comprende più di 40 Paesi del continente, anche i 27 Paesi che fanno parte dell’UE. Sono andato a Bruxelles perché volevo conoscere da vicino il funzionamento delle istituzioni dell’Unione. E’ una realtà molto articolata e complessa. Ho incontrato molte persone di buona volontà consapevoli delle difficoltà e di una certa sfiducia nei confronti dell’UE, come dimostra per esempio la Brexit. Ma ho potuto constatare anche i buoni frutti di questo cammino di 60 anni dell’unità che deve essere reimpostato tenendo conto appunto delle difficoltà.

- Certi ambienti politici dell’Unione Europea vogliono rispondere alla crisi e alla sfiducia della gente con più integrazione, dando più potere alle istituzioni europee o proponendo il modello federalista dell’Unione. Ma in questo modo non si contraddice uno dei cardini della costruzione europea cioè la sussidiarietà?

- Personalmente penso che l’Unione Europea dovrebbe essere casa delle nazioni e dei popoli, più che un soggetto fortemente unificato. Ritengo che questa sia la strada migliore. Le popolazioni devono avvertire che l’unificazione non è una cosa opprimente, omologante, che non rispetta identità, culture, le storie nazionali, ma è una casa con i denominatori comuni che sono la visione antropologica e una società solidale e sussidiaria.

- Nella capitale d’Italia sono venuti i capi dei Paesi dell’Unione Europea per celebrare il 60° anniversario della firma dei Trattati di Roma. Ma, come abbiamo detto, per l’UE il momento è difficile. In questo momento di crisi, cosa ha da dire la Chiesa all’Europa?

- Le celebrazioni del 60° anniversario del Trattato europeo per i Capi degli Stati dell’UE è una buona occasione per confermare il sogno europeo, ma anche per fare un serio esame di coscienza se il progetto è rimasto fedele ai Padri fondatori. Non bisogna nascondere o sottovalutare i segnali di diffidenza e di lontananza dall’Unione da parte di tanta gente. Non prenderli sul serio sarebbe da irresponsabili. La Chiesa credeva e crede ancora nell’Unione Europea. C’è ancora più bisogno d’Europa, ma ad una condizione: che l’Europa rimanga sé stessa, rispettando le sue origini giudaico-cristiane, la sua storia, la sua identità continentale, la sua pluralità di tradizioni e culture, i suoi valori, la sua missione. L’Unione non è fatta dai Capi di Stato, ma dai popoli degli Stati membri, ed ai popoli bisogna pensare con stima e rispetto senza imporsi. Accelerare i processi non può significare l’omologazione di culture e tradizioni, la ricerca di compromessi al ribasso, e neppure limitare le sovranità nazionali. I Capi degli Stati e dei Governi sanno che essi sono delegati dei loro popoli e che nelle decisioni comuni devono tener conto delle loro Nazioni. L’Unione Europea o rispetta le identità dei Popoli, oppure continuerà ad essere percepita dalla gente come estranea e, quindi, senza futuro.

- La crisi dell’UE è casato dal fenomeno delle migrazioni che crea tensioni tra i Paesi e il malcontento tra la gente. Mi permetto di citare il suo connazionale, defunto card. Giacomo Biffi, che già nel 2000 ha parlato con preoccupazione del fenomeno delle migrazioni di massa verso il nostro Continente. Il porporato, ricordando che la Chiesa giustamente promuove una "cultura dell'accoglienza", sottolineava che tale atteggiamento deve essere accompagnato dal “realismo nel vaglio delle difficoltà e dei problemi”. E tale realismo impone il diritto di “gestire e regolare l'afflusso di gente che vuol entrare a ogni costo” in Europa. E questo vuol dire che “il massiccio arrivo di stranieri nel nostro paese sia disciplinato e guidato secondo progetti concreti e realistici di inserimento che mirino al vero bene di tutti, sia dei nuovi arrivati sia delle nostre popolazioni”. Si ha impressione che affrontando il grande problema dei flussi migratori manca il realismo nelle possibilità d’inserimento della gente che arriva nel nostro continente?

- Ovviamente si parla dell’accoglienza perché la gente che arriva da noi senza nulla ha bisogno di tutto. Ma bisogna parlare anche d’integrazione che è un processo molto più lungo, complesso e delicato. Questo processo si attua già nel nostro Paese. Io penso alla mia diocesi dove in tale processo viene inclusa la conoscenza della nostra cultura e delle nostre tradizioni, sperando che in questo modo i nostri fratelli migranti acquisiscano l’affezione verso la nostra terra per potersi sentire parte della nostra gente.

- Ci sono degli ambienti politici e ideologici che non insistono sull’integrazione dei migranti perché sono interessati a promuovere l’idea delle società multiculturali e multireligiose come un futuro auspicabile per tutte le nazioni. Per realizzare tale società si combatte l’identità delle nazioni, si relativizzano le culture e le religioni, si stigmatizza il patriottismo usando delle accuse di nazionalismo o addirittura xenofobia. Ma la Chiesa con la sua concezione dell’unità del genere umano fondato sulla comune natura di figli di Dio Creatore, dovrebbe identificarsi con l’ideologia del multiculturalismo?

- Il multiculturalismo è una categoria un po’ notarile che registra il fatto che ci sono tante culture e religioni. Bisognerebbe piuttosto parlare d’interculturalismo, che è entrare in dialogo tra di loro, imparare a conoscersi ed apprezzarsi, non soltanto vivere una accanto all’altra. In questo modo l’identità nazionale non si perde e in certo modo può anche arricchirsi.

- I fatti del terrorismo islamico ci interrogano sulla presenza dei musulmani nelle società occidentali. Purtroppo, non ci sono tanti buoni esempi della piena integrazione dei musulmani come dimostrano le vere enclave islamiche in tutta l’Europa. Il vescovo di Ratisbona, mons. Rudolf Voderholzer, a proposito del rapporto con l’islam in Europa ha detto: “Per quanto si debba essere realisti, l’islam è un fenomeno post-cristiano, che entra in scena con la pretesa di negare le verità centrali del cristianesimo. La fede nella Trinità, l’incarnazione di Dio in Gesù Cristo e la redenzione operata da Lui sulla Croce. Solamente chi non conosce o non prende sul serio la propria fede può ritenere possibile un’integrazione avanzata dell’islam in quanto tale”.

- Bisognerebbe dire due cose: la cultura occidentale si sta svuotando di valori autentici. Questo fa il gioco di qualunque realtà che si presenta come fortemente identitaria. Quindi la cultura occidentale deve recuperare se stessa e non diventare sempre più neutra perché così non affascina nessuno. Essere neutro non è un ideale, non rappresenta niente.
La seconda cosa, le autorità competenti – almeno in Italia – agiscono oggi con più realismo, chiedendo alle persone che desiderano rimanere in Italia condizioni ben precise: imparare la lingua, fare i percorsi lavorativi, non fare i ghetti.

- Il problema è che in Europa ci sono tanti ambienti politici che si pongono come scopo proprio l’eliminazione dell’eredità cristiana con i suoi valori. Basta citare i socialisti francesi che vogliono continuare la rivoluzione per finire con l’eredità del passato per creare un “uomo nuovo”, come lo volevano fare i totalitarismi comunisti…

- Tagliare le radici vuol dire morire. La Chiesa cattolica ma anche le Chiese ortodosse e altre Chiese cristiane devono crescere nella consapevolezza che tagliare con il passato vuol dire suicidarsi. Papa Francesco, come i Papa precedenti, ha detto cose molte chiare: l’Europa deve voler bene a sé stessa.

- Rimane ottimista circa il cammino dell’unità europea?

- Nonostante tutte le difficoltà registrate nel cammino europeo, noi come Chiesa cattolica siamo convinti che c’è più bisogno d’Europa perché in questo mondo globalizzato, in continua mutazione, non si può agire da soli. Non penso solo ai commerci e alla finanza ma alla sfera culturale. L’Europa ha tuttora una missione da svolgere nel mondo. Questo non vuol dire eurocentrismo, ma credo che ogni continente abbia qualcosa di peculiare da dare al resto del mondo.

- Quale messaggio ha l’Europa da trasmettere al mondo?

- Il primo riguarda la visione antropologica, che dà le risposte alle domande: Chi è la persona umana? Qual è il suo destino, il fondamento della sua dignità e dei valori umani? C’è anche un altro aspetto della sua missione: nessun continente come l’Europa ha fatto l’esperienza dell’abisso del male con due conflitti mondiali ed ha anche l’esperienza della potenzialità distruttiva della tecnologia. Quando la tecnologia, che è necessaria, sfugge di mano alla dimensione etica, si ritorce contro l’uomo.

„Niedziela” 19/2017

Editore: Tygodnik Katolicki "Niedziela", ul. 3 Maja 12, 42-200 Czestochowa, Polska
Redattore capo: Fr Jaroslaw Grabowski • E-mail: redakcja@niedziela.pl