L’AFRICA NEL CENTRO DELL’ATTENZIONE DELLA CHIESA E DEL MONDO INTERVISTA CON P. GIULIO ALBANESE

Włodzimierz Rędzioch: - Nelle ultime settimane l’Africa è tornata, a vario titolo, alla ribalta: nelle preoccupazioni di Benedetto XVI, nei lavori del G8 (che sono diventati G14 e G20) all’Aquila, a causa della visita di Barak Obama - il primo presidente nero degli Stati Uniti - in Africa, concretamente in Ghana;in Vaticano, il Sinodo Africano. Come mai tanto interesse per l’Africa in questo periodo?

P. Giulio Albanese: - La vittoria di Barack Hussein Obama Jr. nella corsa alla Casa Bianca passerà alla storia come il riscatto dell’orgoglio “Afro”. Un sogno che ricorda le parole di Martin Luther King, il pastore battista, premio Nobel per la Pace, assassinato nel 1968 perché rivendicava l’uguaglianza tra bianchi e neri. Le speranze riposte nel nuovo presidente statunitense, naturalmente, sono molte, soprattutto nel vastissimo continente africano. Anzitutto perché Obama, da parte paterna, ha sangue dell’etnia Lwo, un gruppo disseminato sul versante keniano del Lago Vittoria. La sua elezione, in questa prospettiva, essendo egli stesso un “meticcio” - nato a Honolulu dalla relazione tra una cittadina americana, Ann Dunham, e un keniano, Barack Hussein Obama Sr. – rappresenta il superamento della cosiddetta “pregiudiziale razziale” che per secoli ha costituito un impedimento nelle relazioni tra il Nord e il Sud del mondo. Le assicuro che il continente dove si è festeggiato di più la vittoria del primo presidente nero d’America è stata l’Africa (l’ho visto con i miei occhi in Etiopia, in Kenya…).
Dal punto di vista ecclesiale il 2009 è l’anno dell’Africa: dalla visita di Benedetto XVI in Camerun ed Angola, ai preparativi per il secondo sinodo Africano che si terrà in Vaticano in ottobre. Per Papa Ratzinger è stata la sua prima visita in questo continente come vescovo di Roma e un’occasione per conoscere la realtà africana. L’ultima visita di un pontefice risaliva al settembre del 1995 quando Giovanni Paolo II visitò il Camerun, il Sudafrica e il Kenya. Allora l’interesse per l’Africa c’è ma devo dire che tante volte i messaggi che passano attraverso i media lasciano molto a desiderare: si tende sempre a banalizzare i vari argomenti che riguardano questo continente.
Va detto anche che l’Africa sta patendo la crisi dei mercati: la crisi economica che ha colpito l’Occidente, ha colpito anche in modo più grande questo continente che sta peggio di tutti. C’è stato l’abbassamento dei prezzi delle materie prime, il crollo degli investimenti stranieri e il vero collasso della cooperazione allo sviluppo. Non dimentichiamo che ci sono i Paesi africani che nel loro budget annuale prendono in considerazione gli aiuti internazionali (fino al 30%). A causa della crisi l’Africa ha ricominciato ad indebitarsi.

- Il presidente Obama, per il suo primo viaggio in Africa, voleva scegliere un Paese democratico e moderno. Perché non ha scelto il Kenya, il Paese natale di suo padre che per tanti anni veniva indicato come esempio di stabilità e buongoverno, ma il Ghana?

- Dal punto di vista di buon governo, il Ghana è senz’altro il Paese più all’avanguardia. Specialmente sotto la presidenza John Kufuor la democrazia si è consolidata. Per di più è un Paese alleato degli Stati Uniti. Anche se bisogna dire, che il discorso pronunciato nel Parlamento ghanese era rivolto a tutto il continente. Obama vuole rilanciare la politica americana in Africa dopo la grande latitanza sotto la presidenza Bush.

- Ma il presidente Bush ha fatto tanti viaggi in Africa…

- E’ vero che Bush fece tanti viaggi e parlò degli aiuti, ma non è riuscì ad arginare l’avanzata dei cinesi. Si può dire che sotto la presidenza Bush l’Africa è diventata “gialla”.

- Giocando con le parole si può dire che il Continente Nero è diventato “giallo”. Ma torno alla domanda: perché Obama non ha visitato il Paese di suo padre?

- Obama non ha scelto il Kenya, perché lì lo standard di democrazia non è ancora considerato soddisfacente. Per di più è un Paese in una regione come il Corno d’Africa altamente instabile.

- Obama, in modo un po’ patetico parla dei suoi legami con l’Africa (“nelle mie vene scorre sangue africano”). Ma praticamente cosa potrà fare per questo continente?

- Penso che, al di là di questa retorica, Obama seguirà un po’ la politica di Bill Clinton, già presidente americano che più di altri ha posto l’Africa al centro della sua agenda. Obama ha rilanciato l’AGOA (piano di collaborazione bilaterale con i Paesi africani ideato da Clinton), ha riaffermato l’assioma clintoniano “trade not aide” e vuole – per motivi geopolitici - rilanciare la leadership degli Stati Uniti nelle Afriche (non ci scordiamo che questo continente è una miniera a cielo aperto e galleggia sul petrolio). Perciò, per il momento Obama non può essere considerato un benefattore delle Afriche, come qualcuno pensa. Direi piuttosto che si qualifica come partner.

- Il primo presidente afro-americano (“ho il sangue dell’Africa dentro di me”) poteva parlare agli Africani con la franchezza che nessun altro presidente avrebbe osato parlare. Perciò, senza dimenticare la pesante eredità del colonialismo, diceva alla gente che l’Occidente “non è responsabile della distruzione dell’economia dello Zimbabwe, dei bambini soldato, della corruzione diffusa”. Parole, direi, brutali che descrivono bene la situazione del Continente Nero. Nell’Africa la maggior parte dei Paesi viene governata da “eterni” padri-padroni, “presidenti a vita” come Mugabe (al potere da 29 anni), Eduardo dos Santos che dal 1979 governa l’Angola, Yoweri Museveni al potere in Uganda dal 1986, Idris Déby che governa in Ciad dal 1990, o Lasana Conté incontestato padrone della Guinea dal 1984. A quest’Africa governata dall’intoccabile casta dei vecchi capi neri Obama chiede la “nuova governance” per assicurare alle sue popolazioni un vero sviluppo economico e sociale. Non le sembra quasi un invito alla rivoluzione africana?

- Io sto male, quando questi argomenti vengono ideologizzati. Obama – tra parentesi è un meticcio, lo ripeto, non un Afro-americano - ha tirato le orecchie ai capi dei Paesi africani e ha fatto bene, perché anche loro hanno le loro responsabilità. Ma non è stato obiettivo fino in fondo: perché, per essere onesti fino in fondo, bisognerebbe stigmatizzare le responsabilità dell’Occidente, anche se il termine “Occidente” non è più esatto perché ci sono anche i grandi Paesi dell’Asia, perciò parlerei delle responsabilità delle grandi potenze. Cerco di essere concreto: quando si parla di corruzione, occorre tenere presente che questo fenomeno prevede sempre due complici: colui che intasca il denaro (inteso come soggetto richiedente sul mercato dell’illecito) e colui che lo consegna (il cosiddetto offerente). Ora se il computo delle truffe integrasse non solo la “domanda”, ma “anche la dimensione dell’offerta”, la graduatoria dei Paesi con un alto indice di corruzione sarebbe assai diversa da quella che viene solitamente pubblicata sui giornali e vedrebbe in testa nazioni con alti standard di democrazia. È per questa ragione che il ragionamento di Obama sulla situazione economica in cui versa la terra di suo padre, il Kenya, convince fino a un certo punto. Allora, per favore, dobbiamo smetterla di essere manichei (separando il bene dal male con il coltello), perché le responsabilità per i disastri in Africa sono condivisi. Non bisogna essere né terzomondisti, né reazionari, ma realisti. Io penso che la persona che meglio interpreta oggi l’afrorealismo con il suo magistero sia Benedetto XVI (prima di lui Giovanni Paolo II). I suoi discorsi in Camerun e in Angola sono stati discorsi di un afro-realista.

- Come interpreti la richiesta di Obama di una “nuova governance”?

- Una governance saggia, equa e solidale - mi sia consentito sottolineare questi attributi qualificanti presi in prestito da altre aree e attività - esige la mobilitazione di una società civile (Chiese in primis) capaci di far lievitare un nuovo modo di pensare in ambiti ancora troppo contaminati dal liberalismo sfrenato o da meschine pregiudiziali ideologiche. E’ inutile parlare di governance quando poi l’Africa continua ad essere infestata dai mercenari. In questi anni nei miei viaggi ne ho incontrati a bizzeffe…

- Che tipi di mercenari erano?

- Erano i mercenari delle compagnie minerarie. Ma non ci scordiamo che nel mondo globalizzato, nel modo delle compagnie multinazionali, i governi, anche in Occidente, rispondono al diktat dell’economia. La politica è l’ancella dell’economia. E per fare quattrini si è disposti a tutto. Ecco perché occorre riaffermare il primato della politica sull’economia, sugli affari. Lo diceva Giovanni Paolo II, lo dice Benedetto XVI (questo è anche il messaggio forte dell’ultima enciclica del Papa). Tante volte i politici fanno i loro bei discorsi, ma chi decide veramente sono i grandi gruppi multinazionali. Io sono molto affezionato ad uno degli ultimi documenti di Giovanni Paolo II: il Compendio della Dottrina Sociale della Chiesa. In questo documento si riafferma il primato della persona, si parla che la politica deve essere al servizio della res publica, del bene comune. Oggi, è l’esatto contrario: la politica è al servizio dell’economia.

- Parlando degli aiuti all’Africa non si può non parlare delle ONG. Linda Polman nel suo recente libro “L’industria della solidarietà” critica il mondo della cooperazione perché, in molti casi, il suo lavoro sarebbe molto costoso e aiuterebbe i regimi autoritari. Concorda che il ruolo di certe ONG è ambiguo?

- Qui bisogna distinguere: ci sono le grandi agenzie delle Nazioni Unite (tipo FAO, UNICEF) e poi ci sono le vere ONG. Io personalmente penso che le agenzie dell’ONU abbiano bisogno di una grande riforma: bisogna renderle più snelle, meno burocratiche. Purtroppo, in queste istituzioni vige la regola di rappresentanza, allora invece di mettere le persone capaci e preparate, si scelgono persone di questo o quel Paese che a volte sono impreparate. Il rapporto costi/benefici è comunque decisamente fallimentare.
Per quanto riguarda le ONG, a me suona già male il titolo “non governative”, come se si volesse sottolineare la loro indipendenza. Invece nella prassi molte volte non è così, perché ricevono i soldi dai governi, dall’Unione Europea. A questo proposito vorrei ricordare che le ONG sono nate come organizzazioni con un forte radicamento nel territorio; i soldi che ricevevano un tempo arrivavano direttamente dalla gente: dai benefattori, dalle parrocchie, dai sindacati, ed erano una delle più belle espressioni della società civile. Oggi, in alcuni casi (guai a generalizzare!) si sono istituzionalizzate e sono diventate delle imprese.

- Indro Montanelli, uno dei più grandi giornalisti italiani, diceva che se avesse dovuto dare i soldi per aiutare la gente del Terzo Mondo, li avrebbe dati ai missionari. I missionari spendono meglio i soldi degli aiuti?

- Anche noi, missionari, dovremmo essere autocritici. Uno dei nostri grandi limiti è l’assistenzialismo. Noi facciamo bene la raccolta dei soldi che provengono dai donatori motivati, ma dopo pecchiamo appunto di assistenzialismo. Ho notato che tra i missionari c’è poca attenzione a ciò che chiamiamo in inglese self-reliance. Va bene che noi ci preoccupiamo di offrire dei servizi ma non sempre pensiamo alla sostenibilità dei nostri progetti.

- Potrebbe darci qualche esempio concreto?

- Guardiamo alla sanità: noi spesso abbiamo costruito grandi ospedali ma non sempre abbiamo pensato come si manterranno in futuro, cioè quando mancheranno i soldi dei donatori. Invece i protestanti tendono a realizzare strutture più piccole, ma hanno comprato intorno dei terreni, degli autobus ecc.. e, grazie ai proventi dalla coltivazione o dall’uso degli autobus, possono mantenere i loro centri in modo autonomo.
L’altro aspetto del problema è educare la gente alla responsabilità. Aiutando la gente non dovremmo creare dei mendicanti – beggars come dicono gli inglesi, che non vogliono prendersi le loro responsabilità perché contano sul nostro aiuto.

- Come vengono visti i problemi dell’Africa alla luce dell’Enciclica sociale di Benedetto XVI?

- Io ho trovato questa Enciclica illuminante, perché è la parola giusta al momento giusto, cioè nel momento della grande crisi. In fondo, il Papa fa capire una cosa: la globalizzazione, particolarmente la globalizzazione economica, va evangelizzata. Il Papa dice che bisogna riaffermare il primato della politica sull’economia, il primato dell’etica e della persona (in questi anni tanta gente è stata immolata sull’altare dell’egoismo umano). E’ chiaro che ci sono responsabilità condivise in Africa, ma è importante anche che chi sta nelle stanze dei bottoni qui da noi si ponga il problema perché il sistema economico attuale sta creando crescenti sperequazioni tra ricchi e poveri. Non è accettabile che un Paese come la Nigeria, che galleggia sul petrolio, il 75% della ricchezza è concentrata nelle mani dell’1% della popolazione (questo non soltanto grazie alla classe dirigente nigeriana, ma prima di tutto per le ingerenze delle compagnie petrolifere straniere che dettano le regole). Questa sperequazione tra ricchi e poveri è presente anche in Kenya dove l’1% della popolazione dispone dell’80% della ricchezza nazionale. Il sistema che lo permette è iniquo!

- Per salvare le loro banche i Paesi ricchi hanno speso la stratosferica cifra di 14.800 miliardi di dollari! Invece durante il summit all’Aquila si è deciso di sborsare 20 miliardi di dollari in 3 anni per la sicurezza alimentare del Continente Nero. Si capisce che bisognava salvare le banche per evitare il crollo totale dell’economia mondiale, ma questi 20 miliardi sembrano pochi, non Le sembra?

- Hanno deciso di stanziare le briciole ed è una cosa vergognosa. Proviamo allora a fare due conti: stando ai “World Database Indicators” della Banca mondiale (Bm) il pil dell’Africa Subsahariana nel 2007 ammontava complessivamente a 761 miliardi di dollari Usa (per l’esattezza 760,982,826,596), mentre nello stesso anno quello dell’Italia era molto vicino ai due trilioni (per l’esattezza 1,988,232,609,792). Premesso che fa un certo effetto mettere a confronto i toni dell’annuncio da parte dei G8 per quei “venti miliardi di dollari in tre anni” destinati all’Africa con i trilioni di cui sopra, il dato forse più inquietante sta nel fatto che non si capisce che l’abisso che separa i Paesi poveri da quelli industrializzati rappresenti un problema “globale” e non sia solo una questione delle popolazioni africane. Ma sarà mai possibile che gente che ha studiato alla Bocconi o alla London School of Economics non si renda conto che l’acuirsi del fenomeno migratorio, con queste premesse è ineluttabile, nonostante tutti i “pacchetti sicurezza” di questo o quel governo? E la recessione globale nel frattempo, si noti bene, sta facendo disastri a destra e a manca, polverizzando letteralmente non solo quei pochi miglioramenti che erano arrivati, negli ultimi anni, ad alleviare le sofferenze di molti Paesi africani, ma anche provocando un sensibile aumento della povertà nel Nord del mondo. D’altronde, leggendo attentamente un rapporto congiunto pubblicato lo scorso maggio dall’Ocse (Organizzazione per la Cooperazione e lo Sviluppo Economico) e dall’Adb (Banca africana di sviluppo) anche l’economia angolana, che in questi anni era cresciuta grazie al fiorente business del petrolio, nel 2009 dovrebbe registrare una contrazione del 7,2% del pil. Per non parlare del Sudafrica che dovrà misurarsi addirittura con una recessione dell’1,1%, causata soprattutto dal crollo delle esportazione di minerali e dal congelamento degli investimenti. Questi fenomeni naturalmente – non dobbiamo essere Pico della Mirandola per capirlo - avranno, anzi hanno già un impatto negativo sull’economia reale dei Paesi industrializzati in termini soprattutto di disoccupazione. Insomma, quello che intendo dire è che, se il numero dei “morti di fame” continua a crescere a dismisura, chi sarà più in grado di comprare le merci?

- Si parla tanto del colonialismo europeo o occidentale del passato, ma Lei ha già segnalato un altro problema: oggi l’Africa viene conquistata dalla superpotenza emergente, la Cina. Per i Cinesi l’Africa è diventata da un lato il serbatoio delle materie prime e del petrolio (per esempio, circa un quarto del petrolio importato dai cinesi proviene da qui) e, dall’altro, il grande mercato per le merci cinesi. Per di più, la Cina fa gli affari con tutti, anche con i dittatori (basta ricordare il suo ruolo ambiguo nel Sudan). Gli investimenti diretti cinesi ormai ammontano a miliardi di dollari e il numero dei Cinesi sparsi per il continente supera i 750 mila. Quali sono le conseguenze politiche, economiche e sociali dell’espansione cinese nell’Africa nera?

- E’ un grande problema che diventerà sempre più acuto. L’Occidente almeno si poneva il problema dei diritti dell’uomo (anche grazie alla pressione della società civile), invece ai cinesi interessano solo gli affari. Sono loro che promuovono la corruzione dando le mazzette ai chi governa. Possiamo dire che il loro comportamento assomiglia al comportamento degli spagnoli ai tempi della conquista delle Americhe, quando regalavano agli indios biglie di vetro per portar via oro, diamanti e quant’altro. La Cina mi preoccupa perché è riuscita a fare un’operazione poco tempo fa’ impensabile, cioè coniugare gli estremi: il sistema dittatoriale comunista con lo spietato liberismo di matrice occidentale. E’ una nuova forma di colonialismo.

- C’è qualche possibilità di fermare l’espansione di questo colonialismo rosso in Africa?

- Si può farlo se introduciamo le giuste regole. Allora tanto dipenderà dai risultati dei prossimi negoziati di Doha quelli del WTO. Se non si fisseranno le nuove regole, i pesci grandi continueranno a mangiare i pesci piccoli.

- La Cina, che non è interessata alla democrazia e rimane un regime liberticida, si presenta quasi come benefatrice dell’Africa, che investe e porta il benessere…

- Il problema è che i benefici dell’azione dei cinesi in Africa siano limitati alle classi dirigenti, alla nomenclatura e alle oligarchie. I cinesi sfruttano pochissimo la manodopera locale e la qualità dei prodotti è pessima, ma le merci cinesi riescono a spazzare via le produzioni locali (ormai tantissimi souvenir africani sono prodotti in Cina). Per questo motivo c’è un grande risentimento verso i cinesi. A questo punto, se me lo consente, occorre aiutare l’Africa a voltare pagina: l’ideale sarebbe quello di creare, secondo alcuni autorevoli teorici dello sviluppo sostenibile, un sistema a doppia economia, vale a dire su due binari. La prima legata al soddisfacimento dei bisogni fondamentali a gestione collettiva, fuori dagli attuali meccanismi speculativi dei mercati, mentre la seconda a conduzione privata, legata all’appagamento del superfluo. Potrà sembrare utopistico, ma non v’è dubbio che a questo punto è urgente la definizione di un sistema alternativo, prima che sia troppo tardi. Insomma per vivere in pace bisogna vivere bene. Bene e non necessariamente di più o meglio a scapito dei poveri. L’Africa, anzi le Afriche, trattandosi di un continente tre volte l'Europa, chiedono giustizia e non certo le briciole ai noi, ricchi Epuloni del Terzo Millennio.

"Niedziela" 43/2009

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