L’Islam alle porte dell’Europa

Włodzimierz Rędzioch parla con il prof. Riccardo Redaelli, professore all’Università del Sacro Cuore di Milano

WŁODZIMIERZ RĘDZIOCH: – Professore, non possiamo capire i conflitti in Medio Oriente, particolarmente in Siria ed Iraq, senza parlare della grande spaccatura nel mondo islamico tra sunniti e sciti. Cosa bisogna sapere a proposito?

PROF. RICCARDO REDAELLI: – Nel mondo islamico ci sono almeno due grandi spaccature, entrambe rafforzate dalla politica dei Paesi del Golfo, particolarmente l’Arabia Saudita. La prima è quella tradizionale tra i musulmani sunniti e sciiti. Gli sciiti sono una minoranza nel mondo islamico, circa il 10%, ma nel Golfo rappresentano il 50 % della popolazione. Sono dominanti in Iran, Iraq, Bahrain, Libano, Siria.
Ma c’è anche la contrapposizione geopolitica – non religiosa – tra l’Arabia Saudita e l’Iran per il predominio nel Golfo che ha portato ad una polarizzazione e una politicizzazione. Questo vuol dire che la tradizionale differenza religiosa è diventata la contrapposizione politica, dando vita ad un fortissimo e violento radicalismo politico. Questo fenomeno ha spaccato le comunità che precedentemente avevano imparato a convivere in qualche modo, come in Iraq e Siria.
La seconda spaccatura è all’interno del mondo sunnita ed è emersa con forza con le cosiddette “Primavere Arabe”. E’ la spaccatura tra il cosiddetto “islam politico” dei Fratelli musulmani e l’islam salafita sostenuto dall’Arabia Saudita. Sono tutte e due movimenti radicali, molto duri con le minoranze religiose con la differenza che l’islam politico vuole creare delle repubbliche islamiche, mentre i salafiti sono più dogmatici ma politicamente più neutri. Questa grande spaccatura si è vista per esempio in Egitto con l’Arabia Saudita che ha favorito l’azione dell’esercito contro il governo dei Fratelli musulmani. Lo si vede anche in Libia. Insomma le monarchie del Golfo usano i loro soldi ed influenza per combattere l’islamismo politico. Lo fanno usando i salafiti che sono ancora più radicali, integralisti e dogmatici.

– Sullo scacchiere mediorientale agiscono le potenze mondiali (Stati Uniti, Gran Bretagna, Francia, Russia) e regionali (Iran, Arabia Saudita, Turchia, Israele, Qatar, ecc.). Quali sono gli scopi politici, economici e religiosi d’agire di questi stati?

– Il quadro è complicato e spesso le azioni dei vari “attori” internazionali e regionali appaiono scarsamente coerenti. Gli Stati Uniti, dopo la fine della guerra fredda, l’unica superpotenza del mondo, hanno investito tantissimo a livello politico, economico e militare nel Medio Oriente. Ma i risultati sono stati catastrofici. Lo si vede in Afganistan, in Iraq ma anche per quando riguarda la politica verso l’Iran. Oggi l’America è più debole e fragile ma soprattutto ha la strategia confusa. Il nemico numero uno degli americani era l’Iran, ma oggi vediamo che il pericolo maggiore viene non dall’islam sciita ma sunnita. E paradossalmente l’Iran sarebbe un alleato naturale dell’Occidente per combattere il terrorismo jihadista di matrice sunnita. Mentre i nostri alleati del Golfo, l’Arabia Saudita e Quatar, sono gli alleati dei nostri peggiori nemici. Insomma c’è tanta confusione.
L’Arabia Saudita è ossessionata dall’Iran e ha fomentato le violenze in funzione anti-iraniana. Oggi si accorge, come da apprendista stregone, che ha scatenato le forze che non controlla più.
Altri attori: la Russia è stata marginalizzata ma gioca un ruolo importante nel sostegno all’Iran e alla Siria. L’Aiuto russo è stato determinante per la sopravivenza del regime di Assad.
La Turchia ha le grandi ambizioni regionali e vuole con Erdogan, prima come primo ministro adesso come presidente, proporsi come Paese dell’islam moderato. Ma Erdogan ha giocato male le sue carte e è coinvolto in una serie di crisi regionali.
Il Qatar è un minuscolo stato che ha avuto ambizioni smodate, sia per proporsi come referente del mondo islamico, sia per defferenziarsi dall’Arabia Saudita, che è un vicino scomodo.

– Il Qatar ha a disposizione una potente arma mediatica, la televisione Al Jazeera che voleva essere la BBC del mondo arabo…

– La televisione Al Jazeera è un’arma potente, ma sostenendo l’islam politico in qualche modo si è ritorta contro il Qatar.

– E Israele che da sempre faceva tutto per dividere il mondo islamico che lo circondava…

– Prima di tutto bisogna dire che l’Israele di oggi non è l’Israele di 30-40 anni fa, cioè Paese dell’emigrazione askenazita cioè con la visone laica, quasi socialista. Oggi politicamente Israele è molto più a destra con la grande influenza dei partiti religiosi e xenofobi. Israele si è mosso per affermare la sua superiorità militare ed economica. Più il mondo arabo è diviso, più Israele si sente sicuro. I politici come Netaniahu sono ossessionati dall’Iran e hanno guardato il jihadismo sunnita, la guerra civile in Siria come un mezzo per colpire l’Iran colpendo il suoi alleato. E’ un errore evidente che non porta da nessuna parte.
Israele deve scegliere: se vuole la pace restituendo i territori occupati, oppure vuole porsi come uno stato violento occupando i territori, reprimendo o cacciando la popolazione palestinese. Israele non può presentarsi come una democrazia senza restituire i territori che occupa.

– In Europa seguiamo gli ideali della società multi etnica e multi religiosa. Ma nelle nostre società democratiche e libere nascono i jihadisti che partono su tutti i fronti della “guerra santa” per combattere gli infedeli. Come mai tanti giovani in Europa sentono questo richiamo dell’islam radicale?

– E’ un problema molto importante. Volevo ricordare un bel libro del card. Scola “Non dimentichiamoci di Dio”. Ma noi in Europa in realtà ci siamo dimenticando di Dio e abbiamo quasi rinnegato le proprie origini religiose, come se si trattasse di qualcosa di cui vergognarsi. Basta pensare alle esitazioni con cui l’Europa ha parlato delle minoranze cristiane massacrate in questi anni nel Medio Oriente. In Gran Bretagna particolare si è affermata l’idea del multiculturalismo. Il multiculturalismo ha il valore positivo se si intende la presenza e la capacità di dialogo e confronto di più religioni sul territorio. Ma in Gran Bretagna non interferiva all’interno dei singoli gruppi religiosi, ognuno faceva quello che voleva.

– Sembrerebbe una cosa buona, la piena affermazione della libertà...

– Ma questo principio di “non vedere”, “non interferie” ha permesso la crescita di predicatori radicali islamici, che esercitavano una grande influenza sugli emigrati, particolarmente sulla seconda e terza generazione. Ci sono pachistani di terza generazione che non si sentono più pachistani ma nemmeno inglesi. Questa crisi identitaria li rende facili prede della propaganda radicale. Invece siamo stati molto lenti nel capire i pericolo della radicalizzazione di certi gruppi delle nostre società e siamo ancora più lenti nel contrastare questo fenomeno.
Dobbiamo capire che l’ISIS e le persone che lo compongono sono postmoderni. Questi gruppi terroristici hanno una capacità pubblicitaria molto forte: la loro presenza in internet è massiccia e riescono ad attirare tanta gente perché hanno il messaggio semplice e efficace.

– Parlano delle tragedie delle popolazioni mediorientali non si può non parlare della tragica sorte dei cristiani. Come mai i cristiani che vivono in quelle terre dai tempi apostolici sono le prime vittime del terrore islamista?

– I cristiani sono un classico “vaso di coccio”, una minoranza tra i gruppi maggioritari sunniti e sciti. I cristiani, presenti in queste terre prima dell’Islam, sono la comunità meno settaria, non sono armati come gli altri gruppi, sono trasversali perché dialogano con tutti. Quando la società di disgrega, tutti gli elementi non settari vengono colpiti. Nell’ultimo periodo abbiamo a che fare anche con in gruppi jihadisti e dell’ISIS che non tollerano la varietà, le differenze culturali e religiose: vogliono un finto Medio Oriente soltanto per la gente come loro. Perciò i cristiani sono attaccati e sono una facile preda perché non sono armati.

– L’Arcivescovo di Mosul, mons. Emil Nona, è molto netto nei suoi giudizi riguardanti la situazione attuale. Prima di tutto sottolinea che i combattenti fondamentalisti “non si possono fermare se non con la guerra o bloccando i fondi” e poi avverte noi occidentali che, secondo lui, non capiamo l’islam: “(i fondamentalisti) sono un pericolo per tutti, per voi occidentali ancor più di noi. Verrà un tempo di cui vi dovrete pentire di vostra politica. Il confine di questi gruppi è tutto il mondo: il loro obiettivo è di convertire con la spada o di uccidere tutti gli altri”. Se lo dice qualcuno che vive dentro il mondo musulmano e lo conosce benissimo, dovremmo preoccuparci seriamente?

– Innanzi tutto il vescovo di Mosul vive in una situazione catastrofica e ha molto ragione. L’Occidente per tanto tempo ha sottostimato il problema: abbiamo lasciate sole le comunità cristiane e abbiamo esitato a difenderle, anche per non essere accusati di colonialismo (ma è una sciocchezza perché i cristiani sono lì da duemila anni!). Difendere i cristiani in Medio Oriente significa difendere i diritti sacrosanti di queste comunità: il diritto di vivere dove vivono da sempre, il diritto della libertà religiosa.
Per anni abbiamo fatto finta di non vedere che i nostri alleati, come Arabia Saudita, Qatar e Turchia, sostenevano i movimenti estremamente integralisti e pericolosi. E ovvio che questi movimenti non si fermano ai confini nazionali: la loro ambizione è la conversione del mondo all’islam. Ma va detto anche che questi movimenti sono minoritari nell’islam e per il momento combattono prima di tutto contro altri musulmani (laici, moderati). Ma questa cancrena se non viene fermata, dilagherà. Perciò bisogna colpirli con grande durezza perché abbiamo già perso tanto tempo. Ma non possiamo dimenticare che nei ranghi dell’ISIS combattono tanti cittadini europei: questa gente quando tornerà nei Paesi d’origine in Europa, porterà la loro jihad da noi. Bisogna fare molta attenzione a questo fenomeno che va combattuto, ma la risposta non può essere soltanto la repressione.
Allo stesso tempo bisogna ripensare il fatto che fin’ora l’Europa abbia rinnegato le proprie radici cristiane. Noi non dobbiamo aver paura di tali radici. Questo non vuol dire che dobbiamo imporre per forza il cristianesimo ma non dobbiamo nemmeno nascondere che l’Europa nasce come un continente cristiano.

„Niedziela” 41/2014

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