Venti anni fa veniva ucciso don Giuseppe Pugliesi, oggi beato
Il primo martire della Chiesa, vittima dalla mafia.

Włodzimierz Rędzioch intervista il card. Salvatore De Giorgi, arcivescovo emerito di Palermo

Per don Giuseppe Puglisi, un prete siciliano che svolgeva la sua missione nel difficile quartiere Brancaccio di Palermo, il 15 settembre 1993 era un giorno importante: compiva 56 anni di cui 33 come sacerdote. Dopo una intensa giornata tornava a casa con la sua Fiat Uno, scese dall’automobile e stava per aprire il portone. In quel momento qualcuno lo chiamò; lui si girò e in un attimo capii tutto: con un sorriso disse "Me lo aspettavo". In quel momento un'altra persona gli sparò alla nuca. Fu una vera e propria esecuzione mafiosa. Sulla sua tomba sono state scolpite le parole del Vangelo di Giovanni: "Nessuno ha un amore più grande di questo: dare la vita per i propri amici". Quattro anni più tardi venne arrestato a Palermo un certo Salvatore Grigoli, un killer della mafia che confessò d’aver ucciso 46 persone, tra cui don Pino Puglisi (poco dopo l'arresto Grigoli cominciò a collaborare con la giustizia e egli sembrò intraprendere un cammino di pentimento e conversione).

Benedetto XVI ha riconosciuto che l'esecuzione di don Puglisi fu un "martirio", consumato "in odio alla fede". Il 25 maggio, durante un solenne Messa a Palermo in presenza di 100 mila persone, don Pino è stato proclamato beato. Il card. Salvatore De Giorgi, arcivescovo emerito di Palermo e inviato del Papa alla cerimonia, ha letto la Lettera Apostolica del Santo Padre pronunciando le solenni parole: "Accogliendo la domanda del nostro venerabile fratello, il cardinale di Santa Romana Chiesa Paolo Romeo (attuale arcivescovo di Palermo), e di molti altri fratelli vescovi e di moltissimi fedeli, concediamo che il venerabile Servo di Dio Giuseppe Puglisi, presbitero diocesano, martire, pastore secondo il cuore di Cristo, insigne testimone del suo regno di giustizia e pace, seminatore evangelico di perdono e riconciliazione, sia d'ora in poi chiamato Beato". Da quest’anno si potrà celebrare la sua festa ogni 21 ottobre (per coincidenza, il giorno successivo si celebra la festa liturgica del beato Giovanni Paolo II). Alla vigilia del 20° anniversario dell’uccisione del beato Puglisi ho incontrato il card. De Giorgi per parlare di questo figlio della terra siciliana, il primo martire della mafia elevato agli onori dell’altare.

Włodzimierz Rędzioch: - Esattamente 20 anni i killer della mafia ammazzavano don Pugliesi, che sorrise ai suoi assassini. Come interpreta questo gesto del sacerdote che stava per essere freddato?

Card. Salvatore De Giorgi: - Penso che sia un invito anzitutto ai mafiosi alla conversione, come per i suoi uccisori sembra stia avvenendo. Quasi per dire loro che egli, come Gesù, ha versato il suo sangue per la loro conversione, per la loro redenzione, per la loro liberazione dalla schiavitù del peccato che è più dura del carcere. Solo tornando a Dio, essi potranno ritrovare la pace del cuore e ridonare alla società la serenità perduta e la speranza nel futuro.

- Lei divenne arcivescovo di Palermo nel 1996, tre anni dopo la morte di don Puglisi. Può dirci che cosa significava allora per la Chiesa di Palermo il martirio di quel sacerdote?

- Il martirio di Puglisi ha segnato profondamente la vita e l’azione pastorale della Chiesa palermitana, perché attraverso un evento così tragico e così eloquente lo Spirito Santo ci mandava un messaggio preciso. Per me è più significativa anche la crescita numerica e qualitativa delle vocazioni sacerdotali, sviluppatasi negli anni successivi al suo martirio, che interpreto come frutto della sua intercessione in cielo.

- Lei, Eminenza, ha letto la Lettera Apostolica del Papa Francesco con cui la Chiesa ha proclamato beato don Puglisi. Come ha vissuto quel momento?

- Per me è stato un segno di amore di padre Pino, per la cui beatificazione ho impegnato il mio servizio episcopale a Palermo. Pronunziare quella formula è stato per me come sentire il suo abbraccio e la sua protezione nell’anno in cui celebro il 60° anniversario della mia ordinazione sacerdotale e il 40° di quella episcopale.

- Che cosa significa avere don Puglisi beato?

- La beatificazione di don Pino Puglisi è un dono di Dio più atteso da tutta la Sicilia, ma è anche uno splendido e stimolante messaggio per tutti nell’Anno della Fede. Il riconoscimento del suo martirio da parte della Chiesa è la conferma della grandezza morale e spirituale di un sacerdote fedele ed esemplare, autentico testimone di Gesù Cristo e annunciatore della speranza cristiana, soprattutto in mezzo alle nuove generazioni. Ma è anche il sigillo della perenne attualità del suo messaggio, che con la “voce del sangue” invita tutti al coraggio, alla coerenza, alla fortezza, alla santa audacia nell’esercizio sia del ministero sacerdotale come di ogni altro servizio nella Chiesa per il trionfo delle forze del bene su tutte le aggressioni del male, soprattutto come quello mafioso, che è una perversa struttura di peccato, antiumana e antievangelica.

- Il problema è che anche tante persone battezzate che si dichiarano credenti aderiscono alle strutture del male, come quella mafiosa…

- Il grande problema di oggi è che tanti cristiani ignorano le verità fondamentali del Vangelo, vivono come se Dio non esistesse, non ascoltano la sua parola, non mettono in pratica la sua legge, non partecipano al sacrificio eucaristico, non santificano il giorno del Signore. Cristiani, che pur dicendosi tali o mostrandosi praticanti, aderiscono alle forze del male, alle strutture di peccato assolutamente incompatibili col Vangelo, come il crimine organizzato, la mafia, infangando così il nome di Cristo, che è il Dio della vita e dell’amore. Erano queste le contraddizioni e le incoerenze che turbavano il cuore sacerdotale di don Puglisi e lo stimolavano a una instancabile e molteplice azione pastorale, animata dalla preghiera.

- Perché don Puglisi dava fastidio alla mafia?

- Don Puglisi annunziava il Vangelo, soprattutto ai giovani, per aiutare i fratelli a seguire Cristo e quindi a vivere onestamente nell’osservanza dei suoi comandamenti, per formare le coscienze al rispetto delle persone, all’amore vicendevole, al gusto della solidarietà, al senso della legalità, alla capacità del perdono, e vincere così ogni forma di prepotenza, di violenza, di sopruso, di ritorsione, di ingiustizia, di collaborazione col crimine. E tutto questo dava fastidio.
Ma don Pino si rivolgeva anche ai genitori: invitava loro ad educare, con l’esempio e con la parola, i propri figli, oggi esposti come non mai alle suggestioni della droga, dell’alcool e anche, soprattutto in certe zone, alle peggiori forme di sfruttamento sociale e ai tentacoli della malavita diffusa e organizzata. Per esercitare l’azione pedagogica verso i bambini e gli adolescenti creò il centro “Padre Nostro”. Infine lui sollecitava i politici e amministratori di avere sempre più a cuore la soluzione dei problemi dei quartieri poveri o abbandonati. Egli era convinto che la mancanza dei servizi essenziali non solo li rende meno vivibili, ma ostacola ogni serio tentativo di liberazione, di riscatto, di risanamento, di rinnovamento, di formazione, con grande vantaggio delle organizzazioni criminali.

- La morte di don Puglisi, il suo immolarsi è anche un invito a tutti i criminali a convertirsi. Anni fa anche Giovanni Paolo II nella valle dei Templi ho rivolto un duro ma profetico invito a tutti i criminali di convertirsi. Che cosa significava per la Chiesa e per la società quell’appello del Papa polacco?

- Significava, anzitutto, l’assoluta incompatibilità della mafia col Vangelo e con la vita cristiana, tanto più subdola e pericolosa quanto più ipocritamente si ammanta di segni o di riferimenti religiosi, per cui la Chiesa nel nome del Dio della vita, unico Autore e Vindice della vita, deve combatterla con la propria e originale sua strategia pastorale e con gli specifici mezzi spirituali che il Signore le ha dato: l’Evangelizzazione, che cambia le menti, i Sacramenti che liberano dal peccato e risanano i cuori, il Comandamento nuovo della Carità, dell’amore scambievole e operoso, che vince l’odio, la vendetta, la violenza. Nello stesso tempo significava che anche dai peccati più gravi, che gridano vendetta al cospetto di Dio, come la mafia, è possibile, doverosa e indilazionabile la conversione, ossia la detestazione sincera e la riparazione del male commesso, il cambiamento della mentalità, dei comportamenti, della vita, il ritorno alla legalità, a beneficio non solo di se stessi, delle proprie famiglie, dei propri figli e della società che la criminalità mafiosa ferisce, deturpa e rende insicura. E’ così che nella conversione sincera del cuore, Dio, sempre pronto a perdonare, ricostruisce quanto il peccato ha distrutto e ridona la vera gioia della vita personale, familiare e sociale. Per questo, come pastore, non ho cessato e non cesso di pregare per la conversione dei mafiosi: nulla è impossibile a Dio.

L'anatema di Giovanni Paolo II contro la mafia

Durante la sua visita in Sicilia nel 1993 Giovanni Paolo II ha celebrato la Messa anche a Agrigento nella famosa Valle dei Templi (9 maggio). Alla funzione ormai al termine e il Papa ha preso la parola per pronunciare la benedizione e il saluto finale. Nessuno sapeva cosa stava per dire perché quel discorso non era stato preparato. Il Papa procede a braccio. Prima si rivolge ai siciliani e li invita a rifiutare quella che definisce "civiltà contraria, civiltà della morte", ma in seguito parla direttamente ai mafiosi, pronunciando le parole che saranno note come l'anatema di Giovanni Paolo II contro la mafia: "Dio ha detto una volta: non uccidere. Non può l'uomo, qualsiasi uomo, qualsiasi umana agglomerazione, mafia, non può cambiare e calpestare questo diritto santissimo di Dio. Nel nome di Cristo, mi rivolgo ai responsabili: convertitevi! Un giorno verrà il giudizio di Dio!".

"Niedziela" 37/2013

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